Il tango ci smaschera. Ci pone nudi di fronte all’altro e a noi stessi, mettendo in evidenza chi siamo realmente, il nostro carattere, a partire dalle fragilità sino alle risorse. Emozioni e pensieri attraversano il corpo che non mente mai e il nostro modo di danzare, di gestirci nello spazio, diventa il linguaggio attraverso cui noi ci raccontiamo senza filtri, proprio perché andiamo al di là delle parole.
Se infatti nella quotidianità possiamo decidere di scegliere con accuratezza le parole da pronunciare per indirizzare il senso del nostro discorso, sul corpo non potremo mai avere totale controllo. La comunicazione non verbale ha di fatto una sua autonomia rispetto alla nostra volontà. Noi mentiamo, il nostro corpo no.
Nel tango quindi non si può mentire. Si può studiare, migliorare la tecnica, impegnarsi a crescere nella gestione delle energie, portare attenzione, ma il pregio di questa danza che incanta è che non ci omologa, piuttosto ci costringe ad essere autentici. Non siamo di certo noi a possedere i movimenti, ma i movimenti ad essere la manifestazione di chi siamo nella vita, mostrando all’esterno qualcosa che spesso ci affanniamo a nascondere. Se amiamo, detestiamo, siamo umili, ambiziosi, egocentrici, generosi, spaventati, insicuri o sereni… se siamo aperti, guardinghi, diffidenti, indifesi, possessivi, liberi, ansiosi o entusiasti, il nostro modo di pisar il suolo, come la nostra postura, lo rivelano crudamente al partner di ballo come a chiunque ci osservi calcare la pista.
Il tango è quindi prima di tutto comunicazione… una modalità di comunicazione analogica che non ha come interlocutore solo il partner con cui balliamo, ma anche la comunità della milonga che ci guarda e condivide con noi l’esperienza. Che sia consapevole o inconscia, voluta, spontanea o rinnegata, l’energia che muove il processo comunicativo è la seduzione, ovvero la volontà di condurre l’altro a sé ( dal latino se-ducere ) o meglio, secondo l’interpretazione di A. Carotenuto, di portare l’altro in un luogo a parte ( da sed-ducere ). Questa seconda suggestiva ipotesi ci rimanda all’idea che sedurre sia creare uno spazio parallelo in cui incontrare come su di una piattaforma comune chi ci interessa per vivere insieme l’incanto. Nel suo libro Miti e riti della seduzione, Carotenuto scrive:
‘Dovunque si profili una promessa di riparazione, di appagamento, o l’illusione di una ricomposizione delle proprie tensioni, o anche dovunque si intraveda una possibilità di sentirsi più pienamente partecipi della vita, attraverso la sfida del perdersi e del ritrovarsi, lì è in atto la seduzione.’
Cosa pertanto è più seduttivo del tango?
La seduzione è certamente figlia del dio Eros, che permea il tango, ma che non dovrebbe essere inteso come desiderio fisico, quanto come quella forza che ci fa anelare qualcosa e muoverci alla sua ricerca, un principio divino che ci induce verso la Bellezza. Per questo non è solo questione della coppia che balla, della relazione che si crea nell’abbraccio, ma coinvolge anche chi osserva, ascolta e sente. Chi infatti vede la Bellezza manifestarsi non può che esserne sedotto.
La tensione al ricongiungimento, alla ricostituzione dell’unità è storia antica come il mondo. Ne parlava Platone quando raccontava della superbia dell’ermafrodito, creatura perfetta, punita da Zeus ad essere spaccata in due proprio per ridimensionare il suo ego. Da allora principio maschile e femminile separati vivono spasmodicamente il desiderio di ritrovare l’altra metà. Forse questo ci dà il tango, la sensazione di poter tornare ad essere Uno, anche solo per il limitato tempo di una tanda.
E non è importante il risultato, quanto la ricerca in sé, il viaggio di auto-esplorazione che conduciamo attraverso lo studio, il rituale della milonga, l’incontro con l’altro e l’esperienza degli abbracci. Un’esperienza che ci arricchisce e dona benessere a volte, che ci desautora in altri casi. Eppure non demordiamo. Torniamo a cercare, spinti da quel pathos che il tango rivela crudamente, ma che in realtà è principio primo del vivere. Per imparare a ballare dobbiamo farci coraggio e accettarci nei nostri limiti, perché uno dei primi disagi con cui ci confrontiamo è la paura di sbagliare. Nell’anelito ad una perfezione ideale, infatti, prima di tutto scopriamo che siamo tutto fuorché perfetti, ma chi non ha coraggio di scendere in campo, accettando il passo falso, in realtà ha paura di vivere e spesso si arrende. Proprio al centro tra la delusione e l’entusiasmo si apre un percorso di resa al processo. Occorre un tempo perchè due differenze danzino in armonia e perché da due linguaggi nasca poesia.
Dalla rivista El Tanguero, n°16 marzo-giugno 2015
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